Orchidea selvaggia
UNA CARRIERA DURATA MENO DI VENT'ANNI: DAL 1922 (QUANDO COMPARVE IN UNA COMICA MUTA) AL 1941 (QUANDO SI RITIRÒ CLAMOROSAMENTE DALLO SCHERMO). Eppure è diventata (ed è rimasta) la Diva per antonomasia del XX secolo, ancora oggi il prototipo irraggiungibile della star cinematografica. Greta Garbo (nata Gustafsson), spalle tonde e grosse, piedi grandi, seno piatto, è il mito che il cinema (così generoso di cloni e remake) non ha mai tentato di ricreare. Ci hanno provato con Marilyn e persino con Marlene, ma non hanno mai cercato di lanciare una nuova Garbo. Nessuna Margherite-Camille-Violetta l'ha mai citata come riferimento, nessuna regina guerriera ha corteggiato l'androginia come la sua Cristina, e ogni Mata Hari si è inspirata a un'iconografia diversa da quella indo-kitsch-liberty delle sue danze. Quasi ci fosse una sorta di noblesse oblige, o di timore del confronto, o di rispettoso silenzio, a circondare una delle fisionomie più remote, misteriose e istintive apparse sullo schermo. Per lei hanno coniato gli appellativi più “assoluti”: la Straniera Misteriosa, la Sfinge Svedese (agli esordi hollywoodiani), la Sarah Bernhardt del cinema (al tempo dei trionfi drammatici) e naturalmente la Divina. Tutti superflui. Garbo, come un invito o una frustata, era sufficiente: «Garbo Talks!» (la Garbo parla, al lancio di “Anna Christie”, il suo primo film sonoro, una scommessa per lei come per tutti i divi del muto, cui la star rispose con la sua voce fonda perfettamente impostata), «Garbo Laughs!» (alla sua prima commedia, l'impagabile “Ninotchka”, un'altra scommessa vinta, con l'aiuto di Lubitsch e della disarmante scioltezza con cui l'attrice si arrendeva alla leggerezza). Era l'unica che potesse continuare a morire alla fine dei film senza che gli spettatori, alla lunga, si disamorassero: suicida sotto al treno in “Anna Karenina”, fucilata in “Mata Hari”, consunta dalla tisi in “Margherita Gauthier” («Dovete essere forti e in buona salute se dovete morire sullo schermo», diceva), e sempre comunque dilaniata da amori infelici, addii strazianti, sempre offuscata da un passato tragico, da una forzata tendenza alla perdizione, senza un sorriso (tranne due film), ma con quell'unica possibilità di riscatto nella sofferenza e nella rinuncia. Perché “Garbo” anche oggi evoca immediatamente una voce (in Italia quella straordinariamente giusta di Tina Lattanti) e la sagoma di un viso? Ci è meno simpatica di Marlene Dietrich (che fu per dieci anni la sua formidabile rivale, anche lei donna testardamente perduta), ha meno grinta, è meno moderna. E come attrice drammatica è meno versatile di una Bette Davis o una Katharine Hepburn, è più statica, meno appassionata. La risposta più facile è che la Garbo ha mantenuto intatto il suo mito scomparendo, elevando alla massima potenza quella qualità della riservatezza che già faceva di lei un'anomalia nel mondo di Hollywood. Ma forse, in realtà, il mito è stato accresciuto e preservato proprio dal suo dolore, un dolore che già alla fine degli anni '30 non era più proponibile in quelle forme e con quell'intensità drammatica, in quel dissolversi ostinato della carne per sconfiggere il diavolo, in quell'astrazione assoluta di un volto che riusciva a incarnare il modello culturale immaginario di un'intera epoca. La nostra, ma non proprio. La Garbo è un'eroina del muto che (miracolo!) parla. È la narrativa ottocentesca che prende corpo e arriva a invadere il mondo moderno. È l'equilibrio perfetto tra due stereotipi, la Donna Fatale e l'Eroina Sacrificale, altrove e in altri volti inconciliabili. È il sogno letterario del cinema che assorbe la luce al neon delle metropoli (e quella dei riflettori del set). Poi l'equilibrio si spezzò, il ‘900 sconfisse l'800, e la diva, con la consapevolezza del suo ruolo e del suo tempo, scomparve per sempre Tv
A destra Greta Garbo in “la regina Cristina” con John Gilbert, uno dei suoi grandi amori. Negli anni '20 avevano interpretato insieme tre film, ma con l'avvento del sonoro per Gilbert era cominciata la decadenza. Fu la Garbo a imporlo come coprotagonista in “La regina Cristina”. Nell'altra pagina, l'attrice con H.G. Marshall in “Il velo dipinto”.
La regina Cristina
Non tradirmi con me
Come tu mi vuoi
Donna Che ama
La cortigiana
Il velo dipinto
Anna Karenina
PROSSIMAMENTE…
Da Greta Garbo ed Ernst Lubitsch a uno dei giovani attori di Hollywood che Lubitsch valorizzò negli anni '30: Gary Cooper, uno dei protagonisti di “Partita a quattro”. Nel prossimo numero, la locandia di “La legge del signore”.
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