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Per i ragazzini italiani cresciuti durante la guerra, in principio Greta Garbo fu soltanto una caricatura sulle figurine dei Quattro moschettieri: una signora sofisticata con il corpo di celluloide. Poi, nel 1948, apparve sotto forma di Ninotchka: un'agente sovietica che a Parigi scopriva l'amore e la libertà. Finalmente, nel 1963, la Rai trasmise i suoi film. Forse erano meno belli del previsto. Ma lei era molto meglio di una brava attrice: bastava un primo piano per soggiogare lo spettatore…

GRETA GARBO
divina
creatura


LA FACCIA DEL SECOLO
Greta Garbo fotografata nel 1932 da Clarence Sinclair Bull. In quel
periodo stava girando uno dei suoi più grandi successi, Mata Hari.


ADORATA DAI FOTOGRAFI
Garbo in posa per Cecil Beaton, che di lei diceva:
«Il suo sorriso stanco è come quello della Gioconda».

Perché la Garbo è unica e inimitabile? Qual era il segreto del suo volto mirabile, su cui la luce giocava in maniera fantastica? E cosa si nascondeva dietro il suo mistero?

A quasi sessant'anni dal film che chiuse bruscamente la sua carriera, si moltiplicano saggi e biografie su uno dei miti del Novecento. Il più recente è di una giornalista italiana. Che ha seguito le sue tracce in maniera maniacale, con il puntiglio di un detective…

di GIORGIO CALCAGNO

L'IMMAGINE DI GRETA GARBO CHE PIÙ CIRCOLAVA nell'Italia autarchica a metà degli Anni Trenta non era la nordica dallo sguardo di ghiaccio capace di un'innaturale seduzione in La regina cristina; né la raffinata perversa che si esibiva vestita di perle in Mata Hari; né l'aristocratica polacca che seguiva Napoleone a Sant'Elena in Maria Walewska. Era una donna bionda, con il lunghissimo bocchino appoggiato con calcolata nonchalance alle labbra e il corpi ridotto a un nastro di celluloide che si srotolava sinuoso, disegnando curve tanto astratte quanto allusive nelle sue spire.
     Così l'aveva fissata, con un colpo di genio, il disegnatore torinese Angelo Bioletto, chiamato a illustrare nel 1935 i personaggi della prima rivista radiofonica. I quattro moschettieri di Nizza e Morbelli. Al programma era abbinato un concorso a premi, fra quanti avessero completato un album con cento figurine. E le figurine, naturalmente, si trovavano nelle tavolette di cioccolata. Quelle immagini, che la matita di Bioletto, con il suo estro, rendeva subito memorabili, avevano insieme un odore di cacao e di Chanel, rinviavano al palcoscenico di varietà, anzi di varietè, come allora si diceva. Dall'involucro di stagnola, che noi ragazzi strappavamo con furia, uscivano il Feroce Saladino e il Conte di Montecristo, la Bella corsara e le figlie di Ramsete, discinte come i tempi permettevano insieme con i nuovi eroi di Hollywood: Wallace Beery e Douglas Fairbanks, Adolphe Menjou e il gangste.

     Gli italiani se le scambiavano febbrili, per completare le loro raccolte (con 150 album si vinceva la Topolino), mentre da fuori arrivavano notizie sulle «inique sanzioni», il grammofono sputava le note di «lo ti saluto e vado in Abissinia, cara Virginia, ma tornerò». E guardavano attoniti, quando dalla tavoletta usciva la figurina ridotta a pellicola, il volto di Greta Garbo.
     I settimanali cinematografici, con le loro pagine color seppia, mostravano l'irraggiungibile svedese in film dai titoli insinuanti, come Grand Hotel, Il velo dipinto, Margherita Gautier, promettente storia di traviata. Ma per noi, che potevamo andare al cinema solo quando proiettavano Shirley Temple o, nel migliore dei casi, Crick e Crock. Greta Garbo era quel viso impenetrabile, quel bocchino distratti, quel corpo a spirale che riassumeva i sogni e i miti di una generazione.
     Siamo cresciuti durante la guerra, non abbiamo fatto in tempo a vedere, sul vero schermo, i personaggi che hanno fatto della piccola Greta Lovisa Gustafsson la stella più lucente del cielo hollywoodiano. Quando abbiamo potuto finalmente liberarci di Shirley Temple, altri modelli imperavano nel cinema, non c'era più posto per la star scandinava che aveva fatto ruotare intorno a sé il mondo. Ci volle il 1948 perché dalla California ci piombasse addosso il suo ultimo film di successo rimasto bloccato dal conflitto: Ninotchka di Lubitsch, con Melvyn Douglas. La svedese questa volta si era fatta russa, era un agente tetragono del piano quinquennale scaravento a Parigi per una missione politica. E a Parigi, confrontando il plumbeo mondo da lei lasciato con le gioie della Ville Lumière, scopriva, insieme, l'amore e la libertà.
     Non si chiedeva di meglio per lanciare il film sul mercato italiano mentre infuriava la battaglia elettorale del 18 aprile, che opponeva la de di De Gasperi al Fronte di Togliatti. E Greta Garbo, che aveva girato il suo film nel 1939, si trovò, inconsapevole, a svolgere lo stesso ruolo delle vignette di Guareschi, stampate su tutti i muri: «Nel segreto della cabina, Dio ti vede, Stalin no». La famosa risata dell'attrice, che per la prima volta spalancava la gola, suonò invito a scegliere – così come il so personaggio stava facendo – il «mondo libero».
     Passarono altri anni prima che potessimo vedere finalmente i film del suo decennio d'oro. Adesso anche da noi era arrivata la televisione, che dilagava per la Penisola, conquistava gli italiani con i quiz, li saziava con i romanzi sceneggiati; ma non riusciva a dargli programmi cinematografici decenti. «Se potessimo avere i film di Greta Garbo», mi disse verso la fine degli Anni Cinquanta Sergio Pugliese, il creatore della tv italiana. Sapeva che era un sogno impossibile, quei tesori rimanevano gelosamente in cassaforte, bloccati da un'infinità di divieti. Ai suoi spettatori, in surrogato, Pugliese offriva Tina Lattanzi, l'attrice che a Greta Garbo aveva prestato la voce. Ormai oltre la sessantina (è morta quest'anno, centenaria) appariva quasi ogni settimana nelle commedie allestite in studio: evocando agli spettatori più anziani, come apriva bocca, l'immagine proibita dell'Altra.

     Finché i film di Greta Garbo arrivarono davvero sul piccolo schermo, nel 1963. Il cartellone presentava i titoli più sonanti: Mata Hari, Anna Karenina, Maria Walewska, Grand Hotel… Le sale cinematografiche si svuotarono, gli italiani non uscivano più di casa. E fu, per quasi tutti, uno choc. Quei film erano brutti. Pieni di vecchi stereotipi, commerciali per un commercio ormai superato. Perfino Greta Garbo, scoprirono i più puntigliosi, non era una grande attrice. Ma aveva salvato, lei sola, il più: la magia. Bastava che l'inquadratura la mostrasse in primo piano, gli occhi rivolti verso la camera, per soggiogare lo spettatore. C'è una breve sequenza che la ferma per sempre, in Anna Karenina. Lei è salita sul treno a Pietroburgo, d'inverno, si siede in uno scompartimento gelido, estrae un manicotto di pelliccia per difendere le mani. Le altre passeggere cercano di coinvolgere la donna misteriosa in un tentativo di conversazione. «Fa freddo, vero?», una di loro le chiede. Greta non alza lo sguardo. «Sì», risponde a bocca chiusa per scoraggiare le interlocutrici che la stanno fissando. È un'immagine sola. dove tutto l senso è affidato al silenzio. Ma quanto dice, la divina, attraverso la parila non detta.     

La sua magia di dodici film


1926
IL TORRENTE
Dal romanzo di Blasco Ibañez, è il primo film hollywoodiano
della Garbo. Eccola, rapita, mentre riceve il baciamano di
Ricardo Cortez, che interpreta il suo amore impossibile.

1926
LA TENTATRICE
Un ruolo di donna fatale e distruttiva e un dramma dietro le
quinte: durante le riprese il suo pigmalione Mauritz Stiller
viene sostituito alla regia da Fred Niblo. E lei non si dà pace.

1927
ANNA KARENINA [VERSIONE MUTA]
Tra le braccia di John Gilbert, bel tenebroso che ha una voce
sgradevole e si vedrà la carriera stroncata dall'avvento del
sonoro. Finale modificato: qui Anna non si suicida più.

1927
LA CARNE E IL DIAVOLO
Ancora con Gilbert, ancora una storia romantica con un
bell'ufficiate. Nella vita lui è innamorato cotta e lei ricambia
tiepidamente. E i rotocalchi di cinema ci ricameno sopra.

1930
ANNA CHRISTIE
Dalla pièce di Eugene O'Neill, è il suo primo film parlato girato
in doppia versione inglese e tedesca. I giornali elogiano la sua
voce «profonda e distaccata». Qui è con Marie Dressler.

1932
MATA HARI
Da allora in poi sarà impossibile immaginarsi con un'altra faccia
la leggendaria spia della Prima guerra mondiale. Qui, in sontuosa
toilette di Adrian, sta intortando Ramon Novarro.

1932
GRAND HOTEL
«Gente che va, gente che viene…»: e i divi più splendenti della
Metro in gara di bravura. Greta è la Grusinskaya, ballerina russa
in declino; John Barrymore l'aristocratico in rovina.

1933
LA REGINA CRISTINA
Una parte che sembra fatta apposta per lei, tutta fascino, frigidità
e ambiguità sessuale. Eccola mentre medita in solitudine:
resterà il fotogramma più celebre

1935
ANNA KARENINA [VERSIONE SONORA]
Niente happy end:qui la trama di Tolstoj viene rispettata fino all'epilogo
sotto la locomotiva. Dirige Clarence Brown, con Basil Rathbone
[nella foto] e Fredric March che fa Vronski.

1937
MARIA WALEWSKA
Owero l'amante polacca di Napoleone Bonaparte [Charles Boyer
con finta gobba sul naso]. Il primattore commenta galantemente:
«È al suo zenit ma non mi ha mai rubato la scena».

1939
NINOTCHKA
Una rivoluzione estetica: Garbo ride e abbandona [almeno per
la seconda parte del film] la sua icona glaciale. Responsabili
del miracolo Parigi, un cappellino e Melvyn Douglas.

1941
NON TRADIRMI CON ME
Ancora con Melvyn Douglas, ancora in una commedia. Sarà il suo
ultimo film. Il pubblicio non apprezza, la critica mostra qualche
riserva e lei si ritira dalle scene. Ha appena 35 anni.

 

HO SEMPRE AMATO IL CINEMA, SIN DA RAGAZZINA. ERANO GLI ANNI DEL DOPOGUERRA, GLI AMERICANI NON ERANO PIÙ I «NEMICI» E FINALMENTE TORNAVANO I FILM DI HOLLYWOOD. ARRIVAVANO LE COMMEDIE SOFISTICATE CON CARY GRANT, CAROLE LOMARD E KATHARINE HEPBURN, LE STOIRE DI PASSIONE CON MARLENE DIETRICH E GARY COOPER, I GIALLO BRILLANTI DELL'UOMO OMBRA CON WILLIAM POWELL E MYRNA LOY, E LE COMICHE CON BUSTER KEATON E CHARLIE CHAPLIN:

di MARIA GRAZIA BEVILACQUA

Greta, quella
mia ossessione


CINQUE ANNO DO RICERCHE
Con Garbo-Un viaggio alla ricerco della Divina
è il frutto del lavoro durati cinque anni di Maria
Grazia Bevilacqua, giomalista del Secolo XIX e
poi di Famiglia Cristina . La Tartargu edizioni,
267 pagine, 32 mila lire.

E i film di Greta Garbo. Fu lei ad affascinarmi completamente, sin dalla prima volta che la vidi sullo schermo. Improvvisamente apparve quel viso luminoso e aristocratico, quello sguardo insondabile e magnetico, quell'eleganza di movimenti, quel profilo perfetto. Cominciai subito a raccogliere articoli, foto, libri che parlavano della Divina. E durante il mio lavoro di giornalista, ogni volta che intervistavo qualche attore o regista che pensavo l'avessero conosciuta chiedevo: «Ha mai incontrato la Garbo? Com'è?» Lo domandai a Rex Harrison e a Lilli Palmer. E a George Cukor, quando gli consegnarono il Leone d'Oro alla carriera a Venezia. Sapevo che la Garbo detestava la stampa: intervistarla era un'impresa impossibile. Nessun giornalista c'era più riuscito dalla fine degli Anni Venti. Così anch'io mio ero rassegnata. Anzi, non ci avevo mai neppure provato. È stato subito dopo la morte della Garbo, avvenuta nell'aprile del 1990, che ho sentito il desiderio di scrivere di lei, di ritrovarla. Ho deciso così di incontrare e interrogare quante più persone potevo che l'avessero conosciuta: attori, registi, amici. Non volevo semplicemente raccontare la sua vita, ma rivelarne la personalità, cercare di svelare quale era il suo «Mistero». Il mio libro nasce da questo desiderio e dal viaggio alla ricerca della Garbo che ne è seguito, un viaggio durato cinque anni.

«D'accordo, lei non si poteva intervistare.
Ma io non mi sono persa d'animo».

     L'avventura comincia a New York, nel novembre 1990, dopo l'asta da Sotheby's in cui erano stati venduti tutti gli arredi dell'appartamento della Garbo. Tentai allora di parlare con la nipote della Divina, Gray Reisfield, con il medico, con l'avvocato, con vicini di casa, con commercianti della zona. Niente da fare. Fallimento. Capii subito che tutti facevano parte di una «setta» che «non sapeva», «non ricordava», «non veleva parlare».


SOLO PER BEATON
La Divina a 42 anni, nel 1946. Dal 1941 fa vita ritirata, ma al
fotografo Cecil Beaton non ha potuto dire di no. La storica
seduta ha luogo all' Hotel Plaza di New York: Garbo è vestita
informale, con tailleur e maglione.

     Tornata in Italia cominciai il mio lavoro di detective. Intervistai Matteo Spinola, press-agent cinematografico e ora dirigente di Mediaste, che aveva conosciuto la Divina in casa di Fredric March a New York. Spinola mi presentò alla contessa Marina Cicogna, che era stata in crociera con la Garbo sulla barca di Onassis. Marina Cicogna mi consigliò di parlare anche con Donina Cicogna, che era stata amica di Greta. Donina mi parlò dell'amore della Garbo per George Schlee a della gelosia di Valentina, moglie di George. Attraverso un collega di Torino, Renato Bauducco, arrivai a intervistare donna Marella Agnelli, che aveva conosciuto la Garbo sulla Costa Azzurra. «Mi sembrò consapevole della sua immagine di grande diva», disse donna Marella, «e allo stesso tempo introversa, chiusa, come avesse paura che qualcuno potesse ferirla». A New York arrivai a Lillian Gish, che mi parlò dei primi anni della Garbo a Hollywood, di come si sentisse spaesata e di come odiasse interpretare i personaggi di vamp, ammaliatrice e eroina tragica che i boss della Metro le imponevano. Parlai della Garbo anche con Katharine Hepburn, che rievocò il suo primo incontro con la Divina in casa del regista George Cukor. «Stavo nuotando in piscina, completamente nuda, e a un tratto comparvero Cukor e la Garbo», mi disse. «Uscii dall'acqua come un fulmine, afferrai un asciugamano, me lo misi addosso, sorrisi alla Garbo e le dissi: “Sono davvero felice di fare la sua conoscenza” prima di scappare a vestirmi». Greta era una donna molto intelligente, sensibile e dotata di un raffinato senso dell'umorismo e di autoironia. «C'era molto di lei nel film Ninotchka », mi disse il suo amico Raymond Daum, «e c'era anche quel che di sessualmente ambiguo della Regina Cristina ». Come in ogni viaggio avventuroso, anche nel mio non sono mancati i fallimenti, i «porti mai raggiunti», persone che non hanno voluto parlarmi, che mi hanno depistato come Warren Beatty, o la baronessa Cecile de Rothschild. E tuttavia è stato un viaggio affascinante, che ricomincerei domani.     

 

I FOTOGRAFI DELLA DIVINA

IL SUO VISO ERA
UN'OPERA D'ARTE

Nonostante la nota insofferenza della Garbo verso i fotografi, fu proprio una serie di fotografi a convincere Louis B. Mayer, capo della Metro, a chiamare alla sua corte hollywoodiana quella timida svedese sbarcata a New York pochi mesi prima, nel giugno del 1925. Le erano state scattate dal tedesco Arnold Gente, folgorato da uno sguardo che già allora nascondeva quel mistero che di lì a poco avrebbe creato il mito Garbo. «Il suo volto aveva un'insolita mobilità», dice Gente. «La mia macchina aveva fissato una serie di pose e di espressioni così diverse che a stento si poteva credere che fosse la stessa ragazza». Giunta a Hollywood, la Garbo affidò la sua immagine a Ruth Harriet Louise. Nei quattro anni successivi la Louise, come fotografa ufficiale della Garbo, seppe valorizzare al massimo il fascino che quel volto luminoso emanava. Ma fu l'incontro con Clarence Sinclair Bull a creare le immagini che, insieme ai film, consegneranno la Garbo alla leggenda. Nei sedici anni della loro collaborazione, Bull non tentò di risolvere l'enigma Garbo ma l'accettò per quello che era: un'opera d'arte della natura. «Lei era il volto, io la macchina fotografica. Semplicemente tenammo di tirar fuori il meglio dal nostro equipaggiamento». Una volta il regista Rouben Mamoulian, per la scena conclusiva della Regina Cristina , chiese alla Garbo di rendere il suo viso «un foglio di carta bianca» sul quale ogni spettatore avrebbe potuto scrivere il proprio finale. Forse fu proprio Bull, nelle sue foto, a riuscire in questo intento. Molti fotografi tentarono di convincere la Divina a posare per il loro obiettivo, ma solo per l'inglese Cecil Beaton fotografare la Garbo divenne una vera e propria ossessione. Per quasi vent'anni tentò di avvicinare il suo mito finché nel 1946, dopo aver ritratto re e regine di mezzo mondo, poté realizzare il suo sogno. Il risultato fu memorabile: nessuno più di lui riuscìa catturare la sua aura. Quei ritratti sembravano provenire da un luogo inesistente, lo stesso luogo nel quale la Divina aveva già deciso di ritirarsi abbandonando lo schermo. Da allora i due si frequentarono spesso fino a finire l'uno nelle braccia dell'altra. Strana coppia: lui si era sempre definito «un terribile omosessuale» e lei aveva già vissuto storie d'amore con donne. Ma questa è un'altra storia.

di MARCO FINAZZI

 

from:   SPECCHIO Magazine,        6 December 1997
© Copyright by   SPECCHIO Magazine

 



 

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