LE DONNE MITO
Da goffa commessa a inimitabile
diva: Mauro Marchesini ripercorre vizi
e virtù della «più grande
tragica del secolo». La rivedremo in tv
in un ciclo di alcune tra le
sue più importanti interpretazioni
GRETA GARBO
«La sua arte, quel misto di gravità,
vacuità e sonnambulismo, nasconde in
filigrana una sorta di autoparodia» In apparenza la favola è di quelle classiche. Stoccolma, 1921. C'è un'ambiziosa ma goffa Cenerentola dal cognome abusato, Greta Gustafsson, che per arrotondare il magro stipendio di apprendista commessa recita in alcuni short pubblicitari. E c'è l'immancabile cacciatore di fanciulle, il regista Mauritz Stiller, che nel corso di un provino, dopo averla fissata a lungo negli occhi, confessa ai dirigenti della Svensk Filmindustri «Una faccia così, davanti alla macchina da presa, la si inquadra solo una volta ogni cent'anni!». E c'è, altrettanto precoce, l'interesse di una prestigiosa major americana, la MGM, la quale MGM, sotto le spoglie di Louis B. Mayer, nel 1925, offre alla timida principiante un contratto di cinque anni, con un compenso iniziale di 400 dollari settimanali. L'attrice svedese rimarrà a Hollywood per un totale di sedici anni, e per un seguito di venticinque pellicole. In quel luogo, verrà splendidamente ritratta dall'operatore William Daniels, fantasticamente corredata dal costumista Adrian e, purtroppo, opacamente diretta da un manipolo di cineasti privi di vista e d'udito (le note eccezioni si chiamano Gorge Cukor e Ernst Lubitsch). Con dieci chili e rotti in meno rispetto agli esordi, i denti rimodellati dagli specialisti californiani, le sopracciglia sensuali e allusive, i capelli vezzosamente galeotti, l'ex ragazza qualunque, figlia di un netturbino e di una donna di servizio, diventerà famosa con lo pseudonimo di Greta Garbo.
Lo stile ambiguo della solitudine
In principio era la solitudine. Non quella maleodorante e abitudinaria dei comuni mortali ma quella esclusiva, firmata, vagamente infrangibile, propria delle creature eccezionali. Tuttavia per Greta Garbo, classe 1905, uno dei miti più spiati, rincorsi, attesi e meditati della storia del cinema, la solitudine non è stata solo un traguardo fatale. Intendo dire che il suo commentatissimo distacco dalle scene, datato 1941, non è stato unicamente il finale prevedibile di una carriera in tal senso orientata. Nel suo caso il divorzio dal mondo è stato molto di più: un vero e proprio stile. Intanto per un motivo tecnico. Un'attrice che ambiva a diventare la più grande tragica del secolo (qualcuno l'ha definita così), doveva necessariamente alimentare un repertorio di gesti unici, imparagonabili. Non a caso troviamo spesso questi strumenti al servizio di amanti tristie-abbandonate che escono infallibilmente di campo, per via metaforica o alla lettera (v. «La tentatrice» The Temptress, F. Niblo, 1926, «La carne e il diavolo» Flesh and the Devil, C. Brown, 1927; ma anche «Maria Walewska», Conquest, C. Brown, 1937 e «Mata Hari» id. G. Fitzmaurice, 1932). A sottolineare però la sostanziale ambiguità del segno della solitudine, uno stemma vissuto di volta in volta come un fragile scudo o come un attestato di nobiltà, come un marchio di dannazione o come una benedizione celeste, intervengono le battute simmetricamente contraddittorie di certi film. Al mortale languore di «Anna Karenina» (la versione muta del '27) e di «Grand Hotel», id., E. Goulding, 1932 (dove il celebre adagio – Ora sono sola – si ricicla nell'altrettanto conosciuto – Voglio soltanto rimanere sola), ribatte la replica di «Ninotchka» (id., E. Lubitsch, 1939). A un certo punto, all'imbarazzante domanda «Vuoi rimanere sola, compagna?», l'eroina risponde secca. «No». Nessuna sorpresa. È infatti assodato che il doppio gioco costituisce il filo conduttore più godibile della carriera della diva svedese.
Detto altrimenti: Garbo la tragica flirta volentieri con Garbo la similridicola. È questo che rende memorabili, e in odore di demenza, alcune tremende svenevolezze di «Margherita Gauthier», Camille, G. Cukor, 1937 e di «Grand Hotel», o talune impervie affettazioni di «Anna Karenina» (stavolta si tratta della versione del 1935, affidata alla guida di Clarence Brown).La sua arte, quel misto di gravità, vacuità e sonnambulismo, quel collage di paranoia e mistificazione, nasconde insomma in filigrana una sorta di autoparodia. Non a caso la tentazione della commedia, un sentiero parallelo che la porterà alle soglie della più di feroce «lesa maestà» (da «Ninotchka» a «Non tradirmi con me», Two-Faced Woman, G. Cukor, 1941), è già al lavoro fin dal 1928 (cfr. «La donna misteriosa», The Misterious Lady, F. Niblo). Un analogo doppio risvolto lo troviamo, inoltre, a livello di tipologia dei personaggi. È vero che la migliore sintesi della Garbo-maniera rimane forse l'inquadratura finale di «Regina Cristina». Un primo piano di quindici secondi che, nelle intenzioni del regista Mamoulian, dovrebbe essere una pagina bianca. Un volto indecifrabile che nulla dice e tutto racconta perché visibilmente neutro.
Greta Garbo agli inizi di carriera; così è il volto della futura diva a 19 anni, all'epoca cioè del suo primo successo, lo svedese «La leggenda di Gösta Berling». Da notare il viso paffuto, non ancora passato tra le sapienti mani degli estetisti hollywoodiani che le faranno perdere 10 chili e la «raddrizzeranno» i denti piuttosto (ma qui non si vede) «a paletta».
Greta Garbo e John Gilbert, celebre coppia nella vita come nel cinema. La foto è stata scattata la sera della prima del loro film «La carne e il diavolo», nel 1927, regia di Clarence Brown.
L'attrice , già diventata diva, incontra la madre in occasione della prima visita negli Stati Uniti della anziana signora. La Garbo, o meglio la Gustafsson, era la classica ragazza di umili origini: il padre era un netturbino la madre una donna di servizio.
«Da una parte abbiamo una donna dedita
cuore e mente alla propria arte. Dall'altra
una dollaro-dipendente oculatissima»
Nello stesso tempo non dobbiamo dimenticare che Greta, ectoplasma irrequieto ed innocente, è anche protagonista di alcune aziono molto «spinte». Per esempio, in diverse occasioni (v. «Orchidea selvaggia», Wild Orchids, S. Franklin, 1929, «Il bacio», The Kiss, J. Feyder, 1929, «Romanzo», Romance, C. Brown, 1930), evoca esplicitamente alcune inadempienze sessuali da parte del partner di turno, allude ad un'esuberante attività erotica, si concede calori ed eccessi piuttosto scandalosi, assume (nel corso del petti premesso dalle censura di allora) posizioni a dir poco emancipate (cfr. i baci-e-carezze del «Torrente» The Torrent, M. Bell, 1926, con lei sopra e lui sotto). Contemporaneamente, tenendo sotto tiro attrice e curriculum, possiamo notare il passaggio dallo stadio della libera offerta, è il periodo in cui ogni uomo incontrato (come ci insegna «Cortigiana», Susan Lenox: Her Fall and Rise, R.Z. Leonard, 1931) è un bambino da viziare o da proteggere.
Lo strano addio di una star
Ma accanto allo sdoppiamento dell'interprete ne esiste un altro, quello della Garbo pubblica. Da una parte abbiamo una donna dedita cuore e mente alla propria arte (una fanatica che litiga per mesi interi con i dirigenti della MGM per farsi assegnare dei copioni più decorosi, una missionaria che stacca sempre alle cinque del pomeriggio perché vinta da una stanchezza ovviamente divina). Dall'altra, viceversa, abbiamo una dollaro-dipendente oculatissima, una star che tiene un bilancio mostruosamente preciso delle proprie entrate-uscite (la stella che nel 1935 riesce a strappare 275.000 dollari per una sola prestazione, la manager che diventerà proprietaria di buona parte di Rodeo Drive, la più importante arteria commerciale di Beverly Hills). E, sempre restando fuori dallo schermo, si può ancora osservare che lo stesso comportamento personale della Garbo è spesso, lucidamente o meno non è dato sapere, diviso a metà. Per un verso coltiva un culto fin troppo ammirato per l'autosufficienza e l'autodeterminazione (una passione che la costringerà all'eterno ruolo della Svedese Errante), per l'altro si lega a più riprese con una stirpe di padri putativi che eserciteranno su di lei, in epoche differenti ma con strumenti simili, una forte influenza. Saranno infatti uomini come Mauritz Stiller (apprendistato artistico e rapporti con Hollywood), Gorge Scalee (gestione finanziaria) e Gayelord Hauser (pubbliche relazioni ma anche disciplina del corpo e dell'anima), a dettare alla Garbo alcune regole inflessibili alle quali lei si sottometterà docilmente. Resta infine da ricordare, si capisce, il gesto che per decenni è stato sulla bocca e sulla penna di tutti: l'addio al cinema.
Intanto occorre precisare che allora, nel '41, né la Garbo né la MGM pensavano a una separazione. Le proposte continuavano ad arrivare a mazzi, e la diva non aveva alcun desiderio di troncare una strepitosa carriera appena funestata dal tiepido successo di «Ninotchka» e dal fiasco di «Non tradirmi con me». Se ferita cu fu, ciò avvenne dopo una collezione di incidenti a catena. «La ragazza di Leningrado», «Il caso Paradine», «Io ricordo la mamma», una Santa Giovanna tratta da Shaw, ecco solo una parte dei titoli che per un motivo o per l'altro non furono realizzati. A quel punto, dopo due o tre anni di inattività, nella Garbo magari è scattata una specie di viscerale, invincibile paura del set.
La repulsione per l'insano ronzio della cinepresa, unita alla convinzione di venire brutalmente dimenticata, deve avere fatto il resto. Oggi è difficile stabilire se la sua sia stata una raffinata strategia per riconquistare il pubblico perduto oppure uno spontaneo attacco di disperazione. Quel che è certo è che la superstar ha disegnato come poche auto-ritratti di eroine di lusso, come si potrà costatare anche nell'omaggio che la tributa questo mese Raduno, con sei tra le sue più belle interpretazioni: «Anna Christie»; «Mata Hari», «Grand Hotel», «Anna Karenina», «Margherita Gauthier» e «Maria Walewska». Ritratti di eroine europee che soltanto una sensitiva senza-terra come lei avrebbe potuto rendere credibili (o perlomeno inimitabili).
Mauro Marchesini |
I FILM DELLA GARBO
FILM MUTI: «En lychoriddare» (Svezia, 1921); «Luffar-Peter» (Svezia, 1922); «La leggenda di Gösta Berling» (Gösta Berling Saga, Svezia, 1924); «La via senza gioia» (Die freudlose Gasse, Germania, 1925); «Il torrente» (The Torrent, Usa, 1926); «La tentatrice» (The Temptress, Usa, 1926); «La carne e il diavolo» (Flesh and the Devil, Usa, 1927); «Anna Karenina» (Loven, Usa, 1927); «La donna divina» (The Divine Woman, Usa, 1928); «La donna misteriosa» (The Mytserious Lady, Usa, 1928); «Destino» (A Woman of Affaire, Usa, 1929); «Orchidea selvaggia» (Wild Orchids, Usa, 1929); «Il bacio» (The Kiss, Usa, 1929); «La donna che ama» (The Single Standard, Usa 1929);
FILM SONORI: «Anna Christie» (ld., Usa, 1930); «Romanzo» (Romance, Usa, 1930); «La modella» (Inspiration, Usa, 1930); «Cortigiana» (Susan Lenox: Her Fall and Rise, Usa, 1931); «Mata Hari» (ld., Usa, 1932); «Grand Hotel» (ld., Usa, 1932); «Come tu mi vuoi» (As You Destre Me, Usa, 1932); «La regina Cristina» (Queen Christina, Usa, 1933); «Il velo dipinto» (The Painted Veil, Usa, 1934); «Anna Karenina» (id., Usa, 1935); «Margherita Gauthier» (Camille, Usa, 1936); «Maria Walewska» (Conquest, Usa, 1937); «Ninotchka» (id, Usa, 1939); «Non tradirmi con me» (Two-Faced Woman, Usa, 1941).
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