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UNA VITA COME UN ROMANZO
IL MISTERO DELLA “DIVINA”

Fu davvero una grande attrice, o soltanto un'abilissima caratterizzatrice? Amò davvero, o restò insensibile scatenando grandi passioni? Che significato ha la sua fuga prematura dal cinema, e dal mondo, che dura ormai da venticinque anni? Questi sono gli interrogativi senza risposta plausibile che si affollano, ancora oggi, sul conto dell'ex commessa dei grandi magazzini di Stoccolma, divenuta quasi per puro casi la “diva” per antonomasia.

LA SUA leggenda cominciò quasi per caso, senza che lei facesse nulla per provocarla. Ma appena il caso le ebbe svelata la sua vocazione, non perse altro tempo, seppe rischiare, lottare e soffrire per arrivare là dove la sua improvvisa ambizione le suggeriva. Ciò che differenzia agli inizi I grandi protagonisti d'un'epoca (in ogni campo) da tutti gli altri, consiste proprio on questo: che I primi sanno riconoscere e afferrare l'occasione quando capita, mentre gli altri se ne lasciano sfiorare senza neppure accorgersene.
     Ed ecco come accadde. Era il 1921. La sedicenne Greta Luisa Gustafsson – questo è il vero nome della «divina» – lavorava come commessa nei grandi magazzini PUB di Stoccolma, quando la direzione dell'azienda decise di iniziare un'intensa campagna pubblicitaria servendosi anche d'una serie di cortometraggi cinematografici.
     Il compito di Greta, come di ogni altra commessa, era quello di presentare I costumi, la biancheria e gli abiti della grossa azienda svedese. La ragazza si prestò volentieri, accettando l'incarico come un piacevole diversivo, senza sospettare che quella sarebbe diventata presto l'occasione per cambiare radicalmente la propria vita.
     Il regista Erik A. Petschler vide casualmente uno di quei «shorts» pubblicitari e restò subito conquistato dalla quieta, pigra bellezza di quella ragazza sconosciuta, che risaltava tra tutte per le sue eccezionali doti fotogeniche.
     Gli ci volle poco per rintracciarla e offrirle una porticina in un film che stava preparando: «Luffar-Petter» (Pietro il vagabondo). Greta si lasciò convincere appena superato il primo comprensibile momento di sorpresa, e quando fu verta che il regista faceva sul serio non ebbe più esitazioni: si licenziò in tronco dai magazzini PUB per dedicarsi interamente al nuovo lavoro.
     «Pietro il vagabondo» era un film comico di modestissime pretese, e la sua parte era davvero una piccola parte, sicché l'uno e l'altra finirono col passare pressoché inosservati. Ma a Greta era bastato per convincerla che il cinema faceva al caso suo, e quando si ritrovò fuori del teatro di posa corse a iscriversi ai corsi della Reale Accademia d'Arte Drammatica di Stoccolma.
     Anche se non glielo avesse già lasciato intendere Petschler, aveva capito da sola che era grezza, incolta, e ce non sapeva assolutamente recitare, non solo perché gliene mancava il mestiere, ma quasi anche l'istinto. Però valeva davvero la pena di tentare, perché si era accorta ormai che recitare le piaceva più d'ogni altra cosa, e perché l'avvenire che le si spalancava dinnanzi era finalmente degno di essere vissuto.
     Greta era nata a Stoccolma il 9 novembre 1905. Suo padre era un povero operaio che stentava a tirare avanti la famiglia: la moglie e i tre figli (lei, la sorella maggiore Alve, e il fratello minore Sven).
     A scuola c'era andata ben poco perché mancavano i mezzi per mantenervela e perché lei era assolutamente insofferente d'ogni disciplina. Pigra, svogliata e poco socievole com'era non lasciava sperare nulla di buono circa il suo avvenire.
     Anche nei giochi era strana e imprevedibile; comunque, preferiva di gran lunga cimentarsi coi ragazzi (non c'era rissa o vagabondaggio in cui non si trovasse prima o poi immischiata) che dedicarsi agli ingenui e innocui passatempi delle sue coetanee.
     Tutto sommato, al sua fu un'infanzia difficile, piena di stenti e di tribolazioni, che si aggravarono colla precoce morte del padre. Aveva appena quattordici anni quando si vide costretta a cercare un lavoro per guadagnarsi da vivere.

Rimase il regista di una volta soltanto
     Bussò a parecchie porte prima di essere assunta, e alfine trovò da occuparsi come garzone in un negozio di barbiere, dove rimase per qualche mese. Quindi passò nei grandi magazzini PUB, specializzati in abiti fatti, e fu lì che, dopo neppure un anno, le capitò l'inattesa occasione di apparire in un paio di shorts pubblicitari.
     Greta era stata fino allora una ragazza convinta di non possedere una vocazione, e ora il caso gliene aveva suggerita una. La sua vera storia cominciò da quel giorno.
     Uscita dopo un anno dall'Accademia, interpretò per qualche tempo ruoli di fianco sul palcoscenico, ma il teatro fu un'esperienza poco convincente per lei, e vi si adattò solo perché non aveva nulla di meglio per il momento.
     Più che mai decisa a fare del cinema, tentò allora di avvicinare Mauritz Stiller, ch'era il più grande regista svedese, e alfine riuscì ad ottenere un provino presso gli studi della «Swenska» a Rasunda. Da quell'incontro doveva nascere di lì a poco una delle unioni più felici, in arte come in amore. Eppure, Greta ebbe la convinzione che quell'uomo rude e autoritario non avesse provato alcun interesse per lei, né come attrice, né come donna. «Oh, quello Stiller! E' un padreterno che non si degnerebbe di guardare un santo…» disse sconfortata ad un'amica.


Una Greta «donna perduta»: nella lunga serie delle prostitute dal cuore d'oro, la storia del cinema pone giustamente in risalto l'interpretazione della Garbo in «Anna Christie», cui appartiene questa scena. Era il periodo del suo fulgore.

     Invece non passò molto tempo che Mauritz Stiller la mandò a chiamare per offrirle una parte importante: il ruolo della contessa Dohna nel film «Gösta Berling Saga» (La leggenda di Gosta Berling). Era il 1923.
     La giovane attrice gliene fu naturalmente molto grata, ma doveva passare ancora qualche tempo prima che lei potesse ricredersi sul suo conto, perché Stiller la trattava sul «set» con mano pesante, rimproverandola aspramente per ogni manchevolezza, e non risparmiandole mai né i suoi rimbrotti, né i suoi sarcasmi.
     Solo più tardi Greta avrebbe compreso l'operato del suo primo grande regista, il cui scopo era di sbozzare a grandi colpi di scalpello la sua innata rozzezza, di tirarla fuori alla svelta dal guscio in cui si trovava rinchiusa, per plasmarla secondo le proprie autentiche possibilità artistiche e risorse drammatiche, ch'erano illimitate.
     Fu lui, poi, a darle il nome col quale sarebbe diventata famosa in tutto il mondo. Secondo qualcuno, Garbo deriva da «Garbon», un allegro spirito dell'aria e delle acque che, secondo la mitologia dei paesi sconfinaci, appare nelle notti di plenilunio per venire a danzare sulle onde del mare. Secondo altri, Garbo è un nome di inconfondibile sapore italiano, scelto in omaggio alla più grande attrice del tempo, Eleonora Duse, di cui sia Greta che il regista erano sinceri ammiratori.
     «La leggenda di Gosta Berling» riscosse un grosso successo anche al di fuori della Svezia, e la cinematografia tedesca si affrettò ad invitare Stiller a Berlino, per festeggiarlo e sottoporgli alcuni vantaggiosi contratti. Stiller accettò ad una sola condizione: che con lui fosse scritturata la sua giovane attrice, e, inutile dirlo, vi riuscì grazie al suo enorme prestigio.
     Finite le calorose accoglienze dei berlinesi, e in attesa di perfezionare un contratto con una casa tedesca, la ormai celebre coppia si prese una bella vacanza e partì per Costantinopoli, attraverso Vienna, Belgrado, Sofia. Ufficialmente, Mauritz Stiller andava a studiare i luoghi e gli scenari dove si sarebbe dovuto girare un suo prossimo film, che naturalmente avrebbe avuto come interprete principale Greta Garbo. In realtà, lui e la sua compagna stavano compiendo una vacanza sentimentale, o meglio ancora, come dissero le malelingue (mai come in quell'occasione vincine alla verità, una «luna di miele» n piena regola. La favola di Pigmalione si stava ancora una volta puntualmente realizzando. Stiller si era ormai innamorato della «sua» creatura, della donna e dell'attrice che aveva plasmato da una creta banale – la giovane anonima, pigra, incolta popolana – e di quell'amore sarebbe vissuto per il resto della sua vita, se addirittura a causa di quell'amore non sarebbe morto, come sostiene qualcuno.
     Ma lo era anche Greta veramente innamorata di quell'uomo, famoso sì, e pieno di talento, ma tanto più anziano di lei? E' quello che ci si chiede ancora oggi, senza poterci dare una risposta convincente. Il dramma di quest'uomo fu che il suo malinconico tramonto coincise proprio con la radiosa ascesa della sua donna. E, come se ciò non bastasse, il destino volle che lui che l'aveva scoperta, valorizzata, sorretta, non dovesse mai più dirigerla. Aveva sognato di dedicare il resto della sua vita a lavorare con lei, per lei, e invece doveva restare il suo regista d'un solo, unico film!...

Accolsero la “divina” con molto scetticismo
     A Berlino, Greta garbo poté interpretare nel 1925 un film diretto da Georg Wilhelm Pabst, «Die freudlose Gasse» (Via senza gioia), mentre Stiller, che era rimasto al suo fianco, aspettava una più propizia occasione. Ma questa non venne mai almeno in Germania, anche perché apparve di lì a poco sulla scena Louis B. Mayer, della «Metro Goldwin Mayer», ch'era giunto dagli Stati Uniti per cercare di accaparrarsi i migliori registi e attori europei. Mauritz Stiller era uno di questi. Mister Mayer lo avvicinò e gli propose senz'altro un vantaggioso contratto, che fu sul punto di non essere concluso proprio a causa di Greta Garbo. Il produttore americano non conosceva infatti la giovane attrice svedese, e il film «Gösta Berling Saga», che vide in un secondo tempo, non lo convinse troppo sulle sue doti artistiche.
     Stiller fu però irremovibile: o la «M.G.M.» accettava tutt'e due, i lui non avrebbe mai firmato quel contratto.
     Louis B. Mayer finì col capitolare. «Non mi avete davvero convinto sulle doti della vostra beniamina – disse, - però accetto unicamente perché me lo avete imposto. Di fronte ai miei soci mi giustificherò sostenendo che consideriamo la sua paga come un vostro aumento di stipendio».
     In tal modo, e con tale scetticismo, Hollywood accolse nell'autunno del 1925 colei che sarebbe poi diventata la sua più grande «diva», l'attrice «divina», il più mitico personaggio cinematografico di tutti i tempi e di tutti i paesi.
     Il contratto che le vene offerto fu pari alla diffidenza con la quale era stata accettata, e il suo primo film americano, «Il torrente», girato agli inizi del 1926 sotto la direzione d'un mediocre, regista, fu un lavoro senza infamia e senza lode.


Sessant'anni fra pochi giorni: Greta Garbo, in abito quasi monacale, cappello enorme e occhiali neri, evita tenacemente i curiosi, in un patetico desiderio di solitudine e d'oblìo oggi ancor più assoluto di quando, stella del cinema, era già definita «la sfinge».

     Andò un po' meglio con «La tentatrice», verso la fine dello stesso anno, un film ch'ella interpretò a fianco di Antonio Moreno e sotto la regìa di Fred Niblo; ma intanto Stiller aveva già rotto il contratto con la «M.G.M.» ed era passato alla «Paramount».
     Greta Garbo fu sul punto di imitarlo, e assieme studiarono anche la eventualità di fare ritorno in Europa. Lo scontento della giovane attrice era dovuto, altre che alla delusione per i due primi film girati a Culver City (dove sorgevano allora gli «studios» della casa), anche all'ostilità con la quale era stata accolta dai colleghi e dal pubblico.
     Quell'incomprensione era stata causata dal naturale riserbo dell'attrice, che in un primo tempo era stato scambiato per superbia, e l'appellativo di «sfinge nordica» che le era stato presto appioppato era meno affettuoso e privo d'ammirazione di quel che si potesse supporre. Merito dello «star-system» hollywoodiano fu di saper sfruttare come meglio non si sarebbe potuto quel particolare aspetto della personalità della Garbo, accentuandone agli occhi del pubblico la scontrasità, la riservatezza, la sensibilità, e circondando di un fitto mistero la sua vita.

Fu John Gilbert il suo “amante ideale”
     In breve, la macchina pubblicitaria cinematografica fece di lei una stella di prima grandezza, e se ne videro i risultati quando nel 1927 apparve sugli schermi il film «Flesh and the Devil» (La carne e il diavolo), terzo della serie americana.
     Quel grosso successo non era venuto a caso, poiché la sceneggiatura (tratta dal romanzo «L'isola dell'amicizia» di Hermann Sudermann) era stata studiata apposta per valorizzare all'estremo il personaggio di Greta Garbo. Grazie a ciò, alla scelta d'un nuovo illustre «partner», John Gilbert, e ad alcune ardite scene d'amore, il film venne accolto con entusiasmo e si rivelò un successo persino più grande del previsto.
     Trovato il filone, quelli della «M.G.M.» lo sfruttarono subito fino in fondo. «La donna divina», «Anna Karenia», «La donna misteriosa», «Destino», «Orchidea selvaggia«, «Donna che ama», «Il bacio», «Anna Christie», «Romanzo», «La modella», «Cortigiana», «Mata Hari», «Grand Hotel», «Come tu mi vuoi», furono i successivi film interpretati dalla Garbo nel giro di appena sei anni, e quindi con una media superiore ai due film all'anno.
     Parecchi di questi l'avevano vista lavorare ancora accanto a John Gilbert, ch'era giudicato il suo «amante ideale» e non solo sullo schermo. In realità dopo l'imorovvisa partenza di Mauritz Stiller per la Svezia, da dove le aveva inviato una lettera per giustificare la sua fuga, Greta si era andata a poco a poco avvicinando al proprio «partner», cui doveva parte del suo primo successo americano.
     Si parlò ad un certo punto di grande passione tra i due, ma se ci fu del vero, ci fu ovviamente anche dell'esagerazione per fini pubblicitari. Quel ch'è certo è che la coppia si fece vedere spesso e volentieri assieme per un certo tempo.
     Altrettanto certo è che la loro relazione sentimentale fu breve e burrascosa. Una prima grossa crisi avvenne quando, durante la lavorazione del film «Orchidea selvaggia». nel 1929, Greta Garbo apprese la morte di Mauritz Stiller. Allora l'attrice scomparve dalla circolazione per parecchi giorni, e vani risultarono tutti i tentativi fatti per rintracciarla. Si seppe poi ch'ella s'era andata a rifugiare sotto falso nome in un modesto albergo di New York, quello stesso dove aveva brevemente soggiornato con Stiller al loro arrivo negli Stati Uniti.
     Una crisi più grave, e praticamente decisiva, avvenne all'epoca dell'avvento del film sonoro, che fu fatale a John Gilbert. Infatti, mentre la Garbo fu tra le poche attrici capaci di superare la terribile prova (e lo dimostrò con «Anna Christie» nel 1930), il suo «partner» non si rivelò all'altezza dell'imprevisto mutamento (che non era soltanto tecnico, ma coinvolgeva anche un tipo di recitazione), non trovò d'un tratto più lavoro, e fu presto dimenticato.
     Greta gli offrì generosamente un'ultima occasione tre anni dopo, con «La regina Cristina», convinta di aiutarlo a risollevarsi, ma l'esperienza non fu positiva. John Gilbert morì in quello stesso anno, tanto ignorato quant'era stato acclamato appena cinque o sei anni prima.
     «La divina», com'era ormai abitualmente chiamato, non conobbe soste fino al 1937, girando altri quattro film tutti di buon successo: «Il velo dipinto», «Anna Karenina» (rifacimento sonoro del lavoro già interpretato nel 1927), «Margherita Gauthier» e «Maria Waleska». Due di essi ottennero il primo premio dalla critica di New York.
     Poi, di colpo, il silenzio, interrotto nel 1939 per interpretare un film diverso dai suoi soggetti abituali, il satirico «Ninotchka»; e nel 1941 «Non tradirmi con me», un'insulsa commediola che viene ancora oggi ricordata soltanto perché fu il suo ultimo lavoro.
     A trentasei anni non ancora compiuti, Greta Garbo abbandonò il cinema per non farvi mai più ritorno. Era davvero finita come attrice (un critico ha scritto che «la sua arte, come lo «champagne», non era fatta per invecchiare»), non aveva davvero la possibilità di rinnovarsi («monocorde, ma grande nel sentimento amoroso» l'ha definita un altro critico) oppure aveva soltanto paura di essere precocemente invecchiata, di essere sul punto di perdere irrimediabilmente la sua dolce, pacata bellezza?

Una figura patetica che desta commozione
     E' questo un altro dei tanti interrogativi sul suo conto che resteranno con ogni probabilità senza risposta. Ancora oggi, per esempio, ci si chiede se fu davvero, nella realtà come nella finzione cinematografica, una grande amorosa, o se piuttosto non fu «come tutte le grandi scatenatici di sentimenti – anche questo è stato scritto di lei – incapace di amare, sensibile alla superficie, arida nel fondo».
     Comunque sia. Ia sua esistenza è stata piena di contraddizioni. Fu indubbiamente una grande attrice, sia pure con dei limiti precisi, possedeva come poche altre «dive» un raffinato mestiere, ma ciononostante, e certo non per colpa sua, interpretò sempre film banali o melodrammatici. Fu, insomma, come attrice, migliore dei film che interpretò, anche se alcuni di questi furono diretti da ottimi registi (Lubitsch, Cukor, Feyder, Mamoulian).
     Dopo la sua scomparsa non ha più fatto parlare di sé, se non, molto saltuariamente, per dei pettegolezzi insignificanti, quasi sempre inventati di sana pianta, o per le sue fulminee e discrete apparizioni qua e là per il mondo, col volto eternamente celato dall'ampia falda d'un qualche cappello,e gli occhi mascherati da grossi, neri occhiali da sole.
     La scontrosità e la riservatezza, che le valsero un giorno lontano l'appellativo di «sfinge» non erano dunque frutto dei manipolatori di Hollywood.
     Malgrado il grosso successo ottenuto, e il mito che le riuscì di creare (o proprio a causa di questi?), non dev'essere mai stata, come non lo è tuttora, una donna veramente felice.
     E' una figura patetica, che non può non destare rispetto e commozione. Ed è un personaggio sopravvissuto a se stesso.

Giovanni Alberto

 

from:   CRONACA,        1965
© Copyright by   CRONACA

 



 

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