Rivedremo Greta Garbo alla televisione, dal prossimo
mese, nei film più famosi della sua carriera
L'ultima grande attrice romantica QUALCHE ANNO FA, a Jean Cocteau che le proponeva di tornare allo schermo un'ultima volta, Greta Garbo diede una risposta degna di lei. «No», disse, «le gente vuole che io rifaccia quello che ho sempre fatto, per poter dire che non sono più in grado di farlo». Una frase come questa è sufficiente a spiegare il mistero apparente di un ritiro che dura ormai da ventun anni e che ha tutta l'aria di essere definitivo. Pure, quando nel 1941, dopo l'insuccesso di Two-Faced Woman («Non tradirmi con me») – da lei malinconicamente previsto, – la Garbo, si decise, trentaseienne, a sospendere la propria attività, essa non pensava ad un distacco definitivo. Forse, se certe circostanze esterne, materiali, fossero state più favorevoli (alludo a combinazioni finanziarie di produzione, ecc.), qualcuno dei tanti progetti fioriti nel dopoguerra intorno al suo nome sarebbe arrivato a buon fine. Vi fu, in questi anni, chi pensò alla Garbo come a Madame Bovary, a Eleonora Duse, a Gorge Sand, alla Duchessa di Langeais, Cocteau aveva pensato a Fedra. Ma tutti questi ed altri progetti non avranno più, ormai, un seguito. Di mano in mano che il tempo scorreva, si faceva più paralizzante quella forma di panico che è venuta dominando l'attrice, e l'ha indotta a rifiutare cifre favolose che le erano state offerte per un'apparizione di pochi istanti sugli schermi televisivi.
Scrisse una volta Elsa Maxwell: «La timidezza di Greta Garbo non è simulata. Isolandosi in un mondo irreale, essa spera sinceramente di trovarvi un rifugio contro la realtà che si impone ad ogni essere umano. E' ossessionata dalla paura di invecchiare e, come una bambina, associa l'età alla bruttezza, e la paura di perdere la propria bellezza si ripercuote sull'insieme della sua personalità». Certo, quella condotta dalla Garbo negli ultimi vent'anni ci può apparire una vita senza scopo. Una vita errabonda, suddivisa tra i viaggi all'estero in compagnia di qualche amico (qualche anno fa essa acquistò una villa sulla Costa Azzurra) e gli oscuri soggiorni newyorkesi, nel corso dei quali essa ama contemplare come affascinata e al tempo stesso distaccata l'antico volto di se stessa, sullo schermo del Museum of Modern Art. Il nome della Garbo, dopo tanti anni, continua a «fare notizia» per in giornalisti (indice, anche questo, di un prestigio che ha pochi riscontri), eppure essa è riuscita a difendere la sua privacy , il suo diritto a vivere a modo proprio, senza essere infastidita. «Io non ho mai detto: I want to be alone . Ho semplicemente detto: I want to be let alone ». Le due frasi in inglese suonano simili; ma la prima significa «voglio star sola», mentre la seconda significa «voglio essere lasciata in pace».
Per i quarantenni, i cinquantenni, i sessantenni di oggi è difficile rassegnarsi all'idea di non rivedere più la Garbo sullo schermo. Pure, è necessario riconoscere che forse ha avuto ragione lei, nel non voler esporre il proprio mito ad un riesame, nel voler conservare in tatto – almeno sul telone bianco – il proprio meraviglioso volto, che fu definito, da qualcuno, «il volto di questo secolo». A parte la generale decadenza della mitologia cinematografica, assai diversi sono – spiegabilmente – quei pochi miti che hanno suggestionato le platee del dopoguerra. Nell'epoca di B.B. non c'è posto per quella somma incarnazione dell'amore passionale e romantico che fu Greta Garbo.
Non è certo un caso che in Margherita Gauthier, «la signora dalle camelie», espressione tipica della concezione romantica dell'amore e «cavallo di battaglia», delle massime attrici teatrali ottocentesche (e non solo ottocentesche), essa abbia trovato il personaggio verso cui tutta la sua carriera tendeva. La cortigiana dal cuore generosa, la quale si riscatta per virtù d'amore, rimane uno dei personaggi più caratteristici e costanti tra quelli interpretati dalla Garbo. Si pensi ad Anna Christie , dal dramma di O'neill, si pensi ad Inspiration («La modella»), la cui eroina è una vera e propria prefigurazione di Margherita. L'altro grande personaggio di peccatrice per amore in cui la Garbo eccelse fu quello della donna che la passione spinge ad infrangere il vincolo matrimoniale, a costo non solo di venir meno ai propri doveri, di violare principe e convenzioni, ma di sacrificare una parte essenziale di se stessa, facendo violenza all'amore materno. In questa direzione la figura più rappresentativa è senza dubbio Anna Karenina, di cui, nel 1935, l'attrice fece una delle sue creazioni più mature, più ricche di umanità, ma che già essa aveva interpretato, in abiti moderni, in un film muto, Love . Del resto, il film che aveva determinato l'affermazione definitiva della Garbo, La carne e il diavolo , del 1927 (il suo terzo film americano, dopo le poche e pur in parte assai significative opere europee di esordio), presentava già un personaggio ed una situazione analoghi. Ne La carne e il diavolo l'interprete ha già raggiunto l'assoluto dominio dei propri mezzi espressivi, senza l'ausilio della parola (la sua voce fonda, un tantino gutturale, accrescerà presto il suo fascino). L'ombra di un sorriso, un lieve inarcar di ciglia le sono già sufficienti a rendere con magica vibrazione uno stato d'animo. Esistono, in tutti i film della Garbo, momenti, invenzioni ineffabili, in cui l'attrice, per sua esclusiva virtù, trascende i limiti di una convenzione spettacolare cui i suoi registi rimasero quasi costantemente legati, con maggiore o minor talento a seconda dei casi. Un'esemplificazione rischierebbe di non finire più. Ma basti pensare al modo sottile ed intenso, con cui, ne La regina Cristina , viene graduato il progressivo divampare, nella locanda, dell'amore fra la sovrana travestita da ragazzo e l'ambasciatore spagnolo. E, nello stesso film, al regale e insieme divertito dominio di sé con cui essa affronta – non senza una venatura di tenerezza – la smarrita stupefazione dell'ambasciatore, allorché egli – presentandosi ufficialmente a corte – si trova dinnanzi, assisa in trono, la donna che, sotto mentite spoglie, lo aveva così appassionatamente amato. Basti pensare all'inquietudine di Grusinskaja, la celebre ballerina di Grand Hôtel , minata dall'angoscia di un crepuscolo ormai vicino; a quel suo incedere altero, a grandi passi di una eleganza suprema e sdegnosa, attraverso la hall dell'albergo. Basti pensare alla trepidazione e al disperato affetto di cui trabocca, in Anna Karenina , la scena in cui la adultera si reca, clandestinamente, a visitare il suo bambino. Basti pensare alle patetica, sublime agonia di Camille ( Margherita Gauthier ), i cui ultimi primi piani costituiscono forse la massima testimonianza dell'arte di Greta Garbo attrice romantica. E come dimenticare il senso di complicità e di promessa, implicito nel sorriso appena percettibile con cui, all'inizio de La carne e il diavolo , essa risponde al gesto di omaggio del bell'ufficiale, il quale ha raccolto e le porge il bouquet cadutole a terra? Oppure, nel medesimo film, la femminilissima civetteria con cui essa studia dinnanzi allo specchio la propria acconciatura di vedova? O in Come tu mi vuoi , dalla commedia di Pirandello il vago tremore che in lei provoca il confronto con il personaggio con cui è stata invitata a identificarsi, quello di una donna risultata dispersa durante la guerra, una donna che potrebbe essere lei stessa, rimasta priva d'ogni bagaglio di memorie?
In alto, Greta Garbo in una scena
del film «Maria Walewska» (1937).
In basso come apparve in «La regina
Cristina» (19344) di Mamoulian
Tutta questa galleria di figure (e ne abbiamo ricordate soltanto alcune) sta a dimostrare, oltre tutto, l'ampiezza della gamma espressiva della Garbo, dominata sì da una notta, quella dell'amore-passione, che ha sempre in lei una particolare, divorante incandescenza, ma non esaurentesi in essa. Come dimostrò poi un regista intelligente, il Lubitsch di Ninotchka , sollecitando una vena fino allora nascosta del temperamento dell'attrice, con risultati ricchi di estro, di finezza, di levità. (Qualità che mancarono nel successivo Non tradirmi con me , ma non per colpa dell'interorete, la quale aveva acconsentito, sia pur con riluttanza, ad esibirsi in exploits per lei insoliti: a mostrarsi cioè in costume da bagno, a nuotare, a sciare, a ballare un nuovo tipo di rumba). Non si deve quindi credere che il momento del crepuscolo sia giunto anzi tempo per la Garbo solo perché essa aveva cessato di essere la creatura distante e sfingea, la «divina» del suo mito tradizionale. Ninotchka è lì a dimostrare il contrario. In realtà il prodigio della Garbo consiste proprio nel non avere avuto crepuscolo (un singolo film disgraziato non fa testo, anche se in pratica ha avuto conseguenze più gravi di quanto si sarebbe potuto sul momento credere).
La Garbo ai tempi
de «Il velo dipinto» Certo, ad onta dell'ampiezza della sua tastiera espressiva, Greta Garbo ha appartenuto a quella categoria di «mostri sacri», i quali, più che porsi al servizio di un personaggio ed annullarsi in esso, rivivono infinite volte un unico fondamentale personaggio, da non confondersi tuttavia con la loro privata personalità. Di esempi del genere è piena non soltanto la storia del cinema, ma anche quella del teatro. Ma non sono esistite, nella storia del cinema (se si eccettui Chaplin, che è tutt'altra cosa), figure dotate di un magnetismo eguale a quello della Garbo; un magnetismo il quale ha fatto sì che opere anonime e troppo spesso scadenti risultassero come illuminate e «ricreate» dall'interno.
Vi è chi ha voluto vedere nella Garbo non l'interprete somma (pur con taluni suoi manierismi, legati ad una moda oltre che ad una personalità), ma soltanto il mito, deteriormente inteso. Si tratta di una minoranza di spettatori, tra cui non mancano tuttavia studiosi della levatura del compianto Umberto Barbaro, il quale ebbe a scrivere fra l'altro: «E' stata un mito: mito, evidentemente, di un'epoca disgraziata e di una civiltà agonizzante; giacché Greta Garbo come attrice è stata una nullità e come bella donna è stata creazione di truccatori e di operatori… La “grande tragica”, nella sua carriera, ha fatto più volte ridere le persone sensate…».
Non possiamo essere d'accordo con una simile valutazione, anche se possiamo capire le ragioni che hanno indotto qualcuno a combattere il mito in quanto tale, con la sua influenza sulla moda e sul costume di una generazione (gli abiti, le acconciature, il maquillage della Garbo hanno fatto epoca, come ha ben sottolineato un esperto intenditore di bellezze e di eleganze femminili, Cecil Beaton, nel suo libro Lo specchio della moda ). E per tanti altri della mia generazione la Garbo è stata e rimane l'ultima grande attrice romantica, una creatura di spiritualissima bellezza al di là delle invenzioni di sarti, parrucchieri e truccatori. Una donna di cui, con scusabile iperbole, un critico inglese non certo famoso per la sua faciloneria e che ha scoperto la Garbo dopo ch'essa aveva chiuso la propria carriera, Kenneth Tynan, ha potuto scrivere: «Quello che nelle altre donne uno vede quando è ubriaco, nella Garbo lo vede quando è in sé».
Giulio Cesare Castello |