Cukor, l'allegro romantico
L'HO INCONTRATO alla presentazione privata della SIGNORA DALLE CAMELIE. Una gran prova. Bisognava verificare se le giovani donne moderne avrebbero pianto anche loro, alla romantica storia della buona cortigiana. Vedere come la ermetica Greta sarebbe riuscita, con la sua bellezza un tantino scabra e virilizzata, a rendere il patetico di quella femminilità parigina vagheggiata dai nostri nonni. E come Gorge Cukor di PICCOLE DONNE e di DAVIDE COPPERFIELD avrebbe risolto il problema di un divulgato tema spremuto da un racconto popolare, da una musica immortale, da un dramma che ha servito da cornice alle più grandi attrici del mondo.
Appena s'è fatta la luce sulla dissolvenza del volto spento di Marguerite Gauthier, Cukor istesso ha risposto al primo quesito, accogliendo le congratulazioni degli astanti:
– Io non credevo che gli italiani fossero cosi sensibili. Non mi sarei aspettato di veder piangere con vere lagrime pei casi della povera Marguerite. – E con interesse ed emozione il giovane regista guardava il volto di alcune belle signore veramente bagnato di pianto. Non che gli americani in generale e Gorge Cukor in particolare siano più freddi di noi e meno sensibili al patetico. Questa quarta, se non erriamo, edizione cinematografica della SIGNORA DALLE CAMELIE, è stata concepita con singolare intelligenza. Vedremo a suo tempo di quale entità ne sia il valore artistico. Ora basti accennare che Cukor ha meglio interpretato il significato dell'Ottocento della Dame aux Camelias lasciando alla Garbo tutte le possibilità di prodursi in una grande recitazione teatrale, che se avesse tentato di rifare con sapore di ambiente una Francia secondo impero: nessun regista d'ingegno sarebbe andato ad attingerla nella celebre opera di Alessandro Dumas. La nostalgia di cui è pieno quel titolo deriva tutta da un'emozione teatrale. La Garbo, questa volta, mostra di aver sentito con acuta chiaroveggenza il pericolo Hepburn: con una ferma volontà di superarsi, ha fatto appello alle sue migliori tradizioni di donna europea, e specialmente e quelle drammatiche della sua terra nordica. E tutto quel che la circonda in questo film poteva, anzi doveva passare in seconda linea.
– Non riusciamo a spiegarci, – domandiamo a Gorge Cukor, – in tanta sua scrupolosa fedeltà allo spirito drammatico del testo, le ragioni del taglio fatto nella seconda parte. È un momento di grandi risorse patetiche: quello, precisamente, in cui Armando, ritornato in campagna ed incapace di dimenticare l'amante, apprende dal ‘vecchio genitore' il nobile sacrificio di Marguerite. Nel suo film, invece, Armando resta a Parigi a condurre la sua vita brillante e dissipata e la sua resipiscenza nasce dal dialogo tra due cortigiane, sentito per caso, nel quale si commenta la miseria e la malattia della povera Marguerite.
– Questa osservazione, – osserva Cukor ridendo, – mi è stata già mossa da Alessandro Wilcott, uno dei maggior critici americani. Per quando arbitraria, la modifica era necessaria. Il tipo di Armando ne sarebbe risultato troppo antipatico: addirittura inaccettabile per la mentalità odierna. Forse nel gioco teatrale questo aspetto è meno appariscente; ma lo schermo ingigantisce i caratteri e le situazioni. Ci è parso, dunque, opportuno dare una linea più virile alla personalità di Armando, per impedire che l'antipatica figura di un ‘figlio di papà' turbasse l'armonia del dramma.
– Lei, signor Cukor, è considerato da noi europei come uno dei maggiori esponenti di quel ritorni e vagheggiamento del secolo scorso che sembra avere tanta presa sul pubblico. Come spiega lei questo fenomeno?
– Tengano conto che si tratta di una voga prettamente europea. Da noi, da un punto di vista commerciale, riscuotono maggior successo i film modernissimi. Del resto i criterî di scelta si rinnovano di volta in volta. Non credo, per quanto mi riguarda, di poter essere definito come il regista dell'Ottocento.
– Benissimo. Che cosa dirigerà dopo il MARIA STUARDA?
– Un film tratto dal romanzo Gone the Wind di Margarete Mitchel. Non ne abbiamo ancora stabilito il titolo.
– Un film di ambiente moderno?
– Oh! No! Seconda metà del secolo scorso…
– Come vede…
– Comprendo, – replica Cukor con una risata, – mo non vi ho ancor detto che il romanzo della Mitchel si è venduto in America ad un milione di esemplari. Vedano gli altri film dell'Ottocento: se non si appoggiano ad un nome di scrittore universalmente noto come Dickens o Dumas, traggono profitto da un eccezionale successo librario. Si può concludere, forse, che noi tentiamo di metter d'accordo il gusto europeo per gli ambienti ottocenteschi con una considerazione americana più pratica. Posso convenire, però, che i racconti dell'ottocento offrono, in confronto di quelli moderni, il vantaggio di essere stati più letti e di aver prodotto una maggior dose di romanticismo. A parte qualunque valutazione di merito, mi pare che un romanzo moderno non abbia avuto il tempo materialmente necessario per raggiungere la notorietà di un Dickens.
– Insomma, lei non crede che il successo del vecchio Ottocento sia dovuto ad una sorta di reazione spirituale contro certi atteggiamenti e osservatori europei, a noi sembra che i pubblici perversioni della società contemporanea? Dagli non vagheggino nell'Ottocento quel che è vecchio e superato, ma solo certi ideali costanti in tutto il passato, come certamente lo saranno nel futuro. Vogliamo nominare la famiglia. La gran de letteratura narrativa del secolo scorso pone sempre come supremo ideale della vita e della società, l'integrità, la prosperità della famiglia: a che cosa, spontaneamente, generosamente si sacrifica Marguerite Gauthier? Ora, in ogni nazione che ha già subito la sua crisi, o appena comincia faticosamente ad uscirne, l'uomo provato dalla bufera ricerca ansiosamente il suo porto naturale. Non parliamo dell'Italia e della Germania ove la restaurazione familiare è già completa, ma dell'URSS ove alla dissoluzione ideologica è succeduta una legislazione fortemente restrittiva del divorzio e dell'aborto; ma degli Stati Uniti, ove la famiglia era esposta ai rudi contraccolpi di un crak : gli stessi giornali cinematografici di Hearst bandiscono una grande campagna di esaltazione della lamiglia e della vita rurale che ne corrobora i valori. Degli altri paesi europei diremmo che non hanno ancora subita la loro grande crisi morale o che ancora non sono riusciti nel loro sforzo di adeguare la produzione cinematografica al sentimento delle masse.
– Queste conclusioni sociali sono molto esatte e sono lieto che la cinematografia americana sia all'avanguardia del movimento e che riscuota soprattutto la simpatia morale dei pubblici europei.
Ed ecco alcune opinioni del regista sul colore, sulla attrici che ha diretto, sui suoi progetti. Circa il colore, è IL GIARDINO DI ALLAH, secondo Cukor, che avrebbe raggiunto i risultati miglioro: «un colore sobrio e poco fastidioso». Quanto alle attrici. Cukor ha lanciata la Hepburn (FEVVRE DU VUCERE, PICCOLE DONNE, SYLVIA SCARLETT) e ha diretto la Garbo nel suo ultimo film (SIGNORA DALLE CAMELIE). Differenze tra le due attrici? «La Garbo è molto sensibile, difficile al primo momento, ma entrati nel suo ordine di idee, molto affabile; non fa prove, per non perdere in spontaneità. La Hepburn è invece vivace, impulsiva, ‘belligerante'». Forse Cukor avrà occasione di dirigere ancora la Garbo, e sta studiando, al riguardo, una commedia romantica in cui Greta canterebbe.
Se fosse venuto in Italia due anni fa, ha dichiarato infine Cukor, avrebbe desiderato di realizzare GIULIETTA E ROMEO qui anziché in America; e, comunque, il film sarebbe riuscito diverso. Circa la produzione italiana, che egli non conosce, ha commentato favorevolmente l'invito ai produttori americani di realizzare film in Italia, soggiungendo poi che si augurerà di vedere pellicole italiane il cui carattere dovrebbe essere assolutamente e soprattutto ‘italiano'.
Gorge Cukor ha l'aspetto molto giovanile: Americano secondo la leggenda migliore: grande riso di denti bianchi, grande giovialità e, quel che più conta, un'origine europea molto fresca, molto visibile. Mentre ci firma una sua fotografia, non possiamo fare a meno di lodarlo per la sua modestia di regista: nelle fotografie appare come un uomo quasi quinquagenario, mentre abbiamo innanzi un giovanotto di trenta.
– Ah! – replica Cukor trionfante, – ma allora ero grasso! – e mostra i vestiti che gli ballano addosso. – Com'è bello esser magri! E i miei anni sono trentasette.
E scrive sulla fotografia, per maggior garanzia: Quand'ero grasso . E termina con un 37 ambiguo. IL CRONISTA |